I Bara e la riconciliazione: una storia vera

La storia che vi racconto è vera, ma devo cambiare i nomi del villaggio e dei protagonisti.
Dovendo organizzare un incontro di formazione per i sacerdoti di Morondava, avevo scelto il tema dibattuto dal Secondo Sinodo Africano: “La Chiesa in Africa, al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Sappiamo tutti come il tema della riconciliazione sia un argomento di interesse universale . Al riguardo, esistono già tre testimonianze in questa rubrica “All’ombra del baobab”.
Mi chiedevo però come la gente di qui gestisce i conflitti e come, soprattutto, trova le soluzioni. Sono sempre più convinto che la riconciliazione “individuale e privata”, prodotto tipico dell’Occidente, non corrisponde alla cultura africana, se non in casi personali e ben precisi. Avevo quindi chiesto ai miei insegnanti di farsi raccontare dagli anziani degli eventi in cui il villaggio aveva trovato rimedi alle situazioni di conflitto. Ecco dunque uno di questi racconti:


“Nel villaggio di Mahabo, un genitore anziano aveva otto figli; uno di questi, finiti gli studi, andò a lavorare vicino a Morondava. Con i primi soldi guadagnati si comprò uno zebù e lo affidò al papà che lo mise nella sua mandria. Nel frattempo questo giovane, che cominciava a guadagnare qualcosa, si prese una ragazza in moglie e ne ebbe un figlio.
Un giorno senza preavviso decise di fare visita ai genitori; prima ancora che rientrasse nel villaggio, uno dei fratelli lo incontrò e gli diede la cattiva notizia che il papà, stretto dai debiti, aveva venduto il suo zebù. Si riprometteva, però, di ricomprarne al più presto uno simile a quello venduto. Il nostro ragazzo, che chiamerò Mandiniha, entrò in una collera furiosa. Entrato in casa, si mise a insultare il papà con i termini più offensivi e ignobili. Chi mi racconta la storia non entra nei dettagli, ma sappiamo che nella cultura di qui essere paragonato a un cane è l’insulto più grave e umiliante che ci sia. A niente valsero le scuse del papà che voleva rassicurarlo sia sulla situazione di necessità in cui si era trovato, sia nel garantirgli che lo zebù sarebbe stato sostituito. L’indomani mattina, radunate le quattro cose, Mandiniha ripartì. La scena del diverbio si era svolta nel cortile, alla presenza di molti del villaggio, incuriositi dalla lite e dagli insulti che si sentivano. Spezzato dal dolore e dalla vergogna, il vecchio convocò gli anziani del villaggio, i quali dissero che un figlio così non solo era indegno, ma bisognava ripudiarlo dal villaggio.
I Bara conoscono bene il rito della maledizione. L’anziano genitore, che si chiamava Tsarovy, entrò in casa, prese una ciotola piena d’acqua, uscì nel cortile, con le mani prese dell’acqua e si lavò il mento e poi, sempre con quell’acqua, ripresa nel cavo della mano, asperse i quattro punti cardinali dicendo “Tu, o ZANAHARY (Dio), che ci hai fatto, che ci hai dato le mani e i piedi, chiamo Te a testimone; chiamo Voi morti che ci avete dato la vita, chiamo Voi, spiriti di Fandroa e di Zama, chiamo Voi, spiriti cattivi (FAHASIVY): io maledico questo mio figlio, non dategli tregua, sia perseguito dalle malattie, dall’infelicità, sia sterile e non abbia figli. Non conosca il successo in quello che intraprende. Voi morti, non dategli tregua. E Voi, anziani, gente del villaggio, siete testimoni: quando muoio, non venga al mio funerale. E se Mandiniha muore, non sia seppellito nella nostra tomba”.
Ognuno si ritirò. Passarono i mesi, gli anni. I fratelli avevano fatto sapere a Mandiniha della maledizione che lo aveva colpito, ma lui, sul momento non se ne era curato. Venne però il momento di circoncidere il figlio. La gente di qui annette un’importanza straordinaria a questo rito. Si tratta di un rito che da statuto ufficiale al bambino . A partire da questo momento avrà “ufficialmente un papà,una famiglia”, con diritto all’eredità e alla sepoltura nella tomba paterna. Sarà tenuto a conservare e ingrandire l’eredità paterna, dovrà osservare tutti i tabù, e applicare le osservanze varie della grande famiglia in cui è inserito. Mandiniha misurava ora l’enormità del torto fatto al padre e, come se non bastasse, si ricordò anche di non avere ancora chiesto ai genitori la benedizione per poter vivere con la moglie e mettere su casa secondo i dettami della tradizione: la gente di qui crede che senza la benedizione dei genitori la circoncisione non solo non riuscirà, ma sarà causa di un’emorragia che porterà il figlio alla morte.
Mandiniha, su consiglio dei fratelli, decise quindi di tornare dal papà. Accompagnato dalla moglie e dal figlio, arrivò al villaggio, fece chiamare uno dei fratelli e si fece annunciare al padre. Il papà rimandò indietro il messaggero con l’ordine di riferire che era ben contento di rivedere il figlio e la nuora e di vedere per la prima volta il nipotino. Tuttavia aggiunse di non volere intermediari tra di loro.
Mandiniha capì subito i desideri di papà: bisognava che andasse egli stesso a chiedere perdono, accompagnato dalla moglie, dal figlio e preceduto da un bel zebù. Rimase qualche giorno fuori dal villaggio, fece cercare la bestia, ma soprattutto chiese al Mpimasy(guaritore) il giorno che secondo il calendario malgascio era propizio per questo incontro.
Il papà nel frattempo aveva riunito la famiglia e gli anziani per il giorno fissato. All’ombra del kily (tamarindo, grande albero che si trova al centro di ogni villaggio Bara), ebbe luogo la riconciliazione pubblica. Appena giunto davanti al padre, Mandiniha, assieme alla moglie e il figlioletto, si buttò in ginocchio con la fronte a terra dicendo, “O tu, ZANAHARY, Voi spiriti di Zama e di Fandroa, Voi tutti nostri morti, Voi spiriti ostili, sono qui io,Mandiniha , con mia moglie e il mio bambino; siamo venuti per chiedere perdono. Quello che ho fatto è molto grave perché ho disprezzato mio padre che è la sorgente da cui ho ricevuto la vita. Non ho ascoltato le sue parole, non ho seguito il suo consiglio e l’ho umiliato davanti a Voi, anziani del villaggio. Ora sono qui a chiedere perdono e il segno del mio pentimento è questo zebù dal pelame nero con una macchia bianca sulla fronte e dalle corna ben arcuate che voi vedete. Voi anziani, concedetemi il perdono del male che ho fatto affinché mio figlio possa essere circonciso senza pericolo. E’questo quello che vi chiedo!”
Mandiniha non solo era prostrato, ma aveva i piedi del padre appoggiati sopra la sua testa. Per un malgascio, e soprattutto per un Bara, questa è la posizione che dice non solo l’umiliazione ma anche la sottomissione e l’impotenza totale.
Uno degli anziani prese la parola per raccontare il gesto di Mandiniha, e la conseguente maledizione del papà. Ricordò ai presenti che i consigli-castighi dei genitori “sono come la pedata dello zebù, se ti sfiora ti fa perdere la conoscenza,ma se ti colpisce in pieno ti uccide”. Ai giovani presenti, il monito e il rito dovevano ricordare che i genitori sono sacri perché sono la sorgente da cui ci viene l’acqua della vita.
Il padre ascoltava e teneva nelle mani una ciotola dove c’era acqua e toka.( bevanda fatta con acquavite e acqua semplice.)
Non avevo mai sentito dire che l’acquavite fosse usata per cerimonie di questo genere.
Presero la parola due anziani che dopo avere sgridato il ragazzo, dopo averlo ammonito severamente, chiesero al padre di Mandiniha di perdonarlo. Citando un proverbio, l’anziano genitore disse, “MANDIA TANY KA SOLAFAKA; MILOLOHA LANITRA KA LENA” (Camminando, capita ogni tanto di scivolare e di cadere; abbiamo il cielo sulle nostre teste e talvolta siamo colpiti dalla pioggia).
Sei venuto per cancellare il male che hai fatto a noi e a tua mamma; per togliere dal nostro volto la vergogna, così che possiamo guardare ancora la gente attorno a noi. Ebbene, ti accogliamo ancora in questa casa e benediciamo tuo figlio”.
Allora l’anziano genitore si alzò e voltatosi verso il Nord-est, (punto sacro per tutti i malgasci,forse perché ricorda la direzione in cui si trovava la terra degli antenati che hanno lasciato per venire in Madagascar, ma anche punto da dove nasce il sole, simbolo della luce e della vita ) fece una lunga preghiera: informava Zanahary della vicenda che aveva colpito lui e la sua famiglia, invocava gli spiriti dei fiumi vicini, gli spiriti cattivi. Soprattutto invocava gli spiriti dei morti della famiglia perché lo ascoltassero bene. Sì, aveva maledetto Mandiniha perché è una cosa grave offendere così i propri genitori. Ma adesso che gli anziani avevano accolto suo figlio e visto che il pentimento era sincero e accompagnato dal dono prezioso di un bel zebù, chiedeva loro di “riprendere Mandiniha nella loro protezione e di accordargli la salute, una famiglia numerosa, riuscita negli affari, per la gloria dei morti e dei vivi. Benedisse Mandiniha,sua moglie,il nipotino, tutti i presenti e i nipotini che sarebbero stati circoncisi la notte seguente. Il bue di Mandiniha fu squartato e servì, insieme al riso, per saziare tutti i presenti. Mandiniha portò anche una grossa tanica piena di acquavite che circolò di mano in mano. Ovviamente i più giovani avevano preparato non solo il riso e la carne … ma organizzato un grandioso “kilalaka” la danza tipica dei Bara che durò tutta la notte.
Ancora oggi la gente si ricorda la storia di Mandiniha. 
Non so quali conclusioni i lettori trarranno da questa storia, ma una cosa è certa: davanti a un’infrazione grave, la riconciliazione deve essere pubblica. La chiesa, insieme alla riconciliazione individuale e privata, deve lasciare alle chiese africane la facoltà di elaborare un’altra possibilità del sacramento della riconciliazione per eventi “pubblici” laddove, appunto, la riconciliazione sia da farsi pubblicamente: LA CULTURA AFRICANA é comunitaria e gioiosa … cosa che nel rito attuale non si vede proprio. Per la gente di qui non esiste riconciliazione senza la festa.