Il profeta tradito

È una lettera amara quella che abbiamo sotto gli occhi. Don Carlo parla “di solitudine intima e senza rimedio… di collaboratori che hanno perso la POESIA DELLA CARITA’… il gusto del sacrificio e che sono diventati burocrati che calcolano le loro prestazioni.”

Insomma un tradimento in guanti bianchi. Ma non per questo meno terribile e doloroso.

L’ideale che diventa affare di soldi! Pensiamo a Giuda che dice “Quanto mi date?”.

Quell’opera che don Gnocchi “sognava per i suoi bambini” diventa azienda.

E’ destino di tutti i fondatori vedere i propri ideali scaduti a “prestazioni” pagate, ma questo non frena don Carlo che “inventa” un gesto di amore straordinario per il suo “dopo-morte”, donare ad altri la gioia di vedere!

Forse da quel suo ultimo gemito prima di morire: “Amis, ve racomandi la mia baracca” sono sbocciati migliaia di amici che ne hanno raccolto la fiaccola, perché il suo sogno continui a vivere.

Sappiamo che ancora oggi la fondazione don Gnocchi accoglie migliaia di persone e le accompagna verso la guarigione… e dunque l’ideale non è stato spento dai “burocrati”…

Occhi

 

Il caso. Una lettera del fondatore della Pro Juventute

Amici, mi sembrate dei burocrati. Firmato don Gnocchi

Milano, 1951. Il grande sacerdote scrive a Mariuccia Meda, una delle sue più strette collaboratrici, e si sfoga. Pensieri liberi e amari, che “Vita” ripropone per lanciare un dibattito

 

Cara Mariuccia, è una sera molto triste questa, che mi fa sentire la nuova condizione in cui mi sono venuto a trovare, ormai totalmente dopo la tua, pur necessaria, prevista e felice (per la bella ragione che l’ha provocata), assenza dal lavoro di questa nostra Opera che tu hai visto nascere. Ho avuto, per varie ragioni ed occasioni, oggi come non mai, la sensazione della mia solitudine spirituale e ne ho molto sofferto; come del resto da tempo ormai mi capita, senza rimedio. Ed ho sentito il bisogno, la debolezza, se vuoi, di scrivertelo. Almeno perché tu comprendessi anche meglio, a tua soddisfazione e premio, la bellezza e l’importanza dell’opera che tu hai compiuto accanto a me in questi anni.

La ragione vera e intima della mia tristezza, quella che da tempo forse influisce sul mio carattere e sul mio lavoro, è questa, anche se non facile a dirsi: Quella di non sentirmi più circondato dalla poesia della carità e dall’ideale di fare il bene per il bene, in quelli che ora sono diventati i miei collaboratori. Ho degli “impiegati” intorno a me; distaccati dal lavoro cui attendono; che non hanno l’angoscia di economizzare il tempo, il gusto del sacrificio, che “calcolano” la loro prestazione, che fanno sentire quanto danno più del dovuto, che non si interessano, per goderne o soffrirne, delle sorti buone o tristi dell’istituzione, che non hanno progetti, disegni, critiche da fare ma si accontentano di eseguire, e insomma non lavorano con me e come me, ma accanto a me.

Quando nacque la nostra Opera era una cosa ben diversa, tu ricordi. Era una cosa di tutti e di ciascuno. Eravamo, tu, la Bertolini, il Dr.Bodini, la Wenner. Ed abbiamo fatto, per questo spirito, un lavoro veramente prodigioso per mole e rapidità. Quando io guardo l’archivio con tutte quelle migliaia di carte, mi stupisco di come abbia potuto scrivere tanta roba e trattare tante pratiche. In una qualunque azienda commerciale ci sarebbero voluti decine di impiegati! Come abbiamo potuto mettere in piedi le Case di Milano, Pessano, Genova, Parma, Roma, Torino, da soli, fare gli acquisti, spedire la roba, dirigere i lavori, organizzare le cerimonie, trovare il personale, indire iniziative colossali quali l’Angelo dei bimbi, la Catena della felicità, le raccolte di fondi, trovare gli amici, i fondi ecc. ecc.? È una cosa che solo si spiega con la Divina Provvidenza, per quanto riguarda la parte di Dio, e con la nostra passione, per quanto riguarda la parte degli uomini.

Nessuno badava al tempo, al sacrificio, faceva distinzione di compiti o di doveri, e ciascuno faceva, a turno ed opportunità, il dattilografo, l’archivista, il fattorino, il facchino, l’autista, la personalità, il meccanico, il portalettere, il correttore di bozze, l’autore ecc.ecc.

Questa era la poesia che ora, come tu sai, è morta, per dar luogo alla burocrazia. Che non vuol dire carte e pratiche (ce n’era tanta anche allora di carta) ma disinteresse e distacco da quello che si tratta.

Non vorrei che queste mie parole ti rattristassero però. Se te le ho scritte è unicamente perché tu senta tutta la poesia del lavoro che hai fatto e che resterà nella tua vita come un caro e consolante ricordo e comprenda, nella sua verità, anche qualche resistenza che io ho fatto alla tua partenza dalla Federazione. Mi pareva che, andandotene tu, partisse l’ultimo testimone di quell’atmosfera che abbiamo vissuto per cinque anni, fatta di santa febbre di lavoro, di speranze e di arrabbiature, di progetti e di scoperte, di gioie e anche di delusioni, fatta soprattutto di contatto vero con i Mutilatini, con veri e cari Amici della causa, e di pieno affiatamento con noi stessi.

L’unica consolazione di questo sacrificio è di vedere ora la tua serenità e la tua gioia per l’affetto che ti dà Gianfranco. Ti assicuro Mariuccia.

Scusami lo sfogo. Tu sai che è la prima volta che ti scrivo queste cose e in questo tono di confidenza. Ma, a parte che ne sentivo io il bisogno e forse la debolezza, tu stessa è bene che comprenda appieno don Carlo e la sua pena odierna. Almeno per pregare più affettuosamente per lui e per apprezzare nella sua realtà il bene che gli hai fatto.

Riposati e sii serena nel Signore. Con affetto,

Don Carlo