La storia vera di Kalamba
La storia – vera di Kalamba
Avvertenza: Questa biografia di Kalamba è stata pubblicata da Klara Boyer-Rossol (che sta preparando un dottorato di ricerca – Storia dell’Africa- sulla presenza dei Makoa sulla costa Ovest del Madagascar).
Nel corso delle sue ricerche ha scoperto la storia di Kalamba, messa per scritto dal pastore norvegese Aaas, ( questa biografia fa parte delle testimonianze “missionarie norvegesi”).
Nel corso della sua presenza a Stavanger il pastore S. Ramàka ne fece una sintesi , dall’originale norvegese, e la pubblicò nel 1944 sulla rivista malgascia MPAMANGY , nov-dic, p.88-92 :”Kalamba Mahihitse Josefa” ( tit. originale: Oplevelser og indtryk…, Stavanger, 1919, p. 166-181, del pastore L.Aas ).
Da notare che Kalamba divenne uno dei primi “ evangelizzatori” makoa di Morondava
Questa non vuole essere una rievocazione del capitolo di “storia infame” che l’occidente ha scritto e che ha per titolo: LA TRATTA DEGLI SCHIAVI.
Vorrei che un africano, strappato dal Mozambico e morto in questa regione del Menabe potesse prendere la parola e parlare anche a voi.
La sua vita è stata una corsa, una fuga, fintantoché ha trovato Cristo.
Si chiama Kalamba, della tribù makoa, ma durante la sua storia gli metteranno altri nomi.
Ho trovato la sua storia nella tesi di Klara Boyer–Rossol che parla appunto di questa pagina di storia “ignorata”, la tratta dei mozambicani, due secoli fa, verso il Menabe. La tesi ricostruisce poi la “sedentarizzazione” degli schiavi liberati nei pressi di Morondava e il loro progressivo inserimento nella società sakalava!
Ogni volta che vado a Morondava passo attraverso i villaggi dei Makoa, di altri centinaia di africani che hanno vissuto la vicenda simile a quella che vi racconto.
Insomma una vicenda che è finta … “appena fuori della porta di casa”! (Mandabe)
E’ questa “prossimità” che mi spinge a farlo parlare “all’ombra del baobab”, oltretutto sappiamo che i “morti non sono morti,ma ben vivi”!
Il testo ha conosciuto varie peregrinazioni. Kalamba raccontò la sua storia al pastore Aas il quale mandò lo scritto in norvegese a Stavanger (Norvegia), di li uno studente malgascio la tradusse per un giornale luterano del Madagascar … e poi eccola.
Traducendola liberamente dal malgascio, come ho fatto io, sente il fraseggiare di chi racconta in prima persona e la vivezza dei ricordi ancora scolpiti nella memoria di Kalamba
( si passa a volte, nel racconto dalla 3^ alla 1^ persona)
La cartina qui sotto visualizza le rotte della tratta degli schiavi…. Fino a Morondava.

Kalamba è nato in Mozambico. Suo papà si chiamava Anarabia e sua mamma Anameniko. Erano quattro fratelli, tre ragazzi e una bambina. Un giorno fu organizzata una festa di famiglia abbastanza lontano da loro, a circa 35km. Nonostante il diniego dei genitori il primogenito volle partire comunque poiché aveva trovato un compagno con cui andare. Lungo la strada fu catturato dai banditi. I genitori fecero l’impossibile per liberarlo nonostante il prezzo altissimo del riscatto: sarebbe toccato a lui, il primogenito, prendersi cura della loro sepoltura. I banditi si rifiutarono di restituirlo se non in cambio di un altro schiavo.
I genitori allora lo sostituirono con Kalamba, il figlio minore.
Non glielo consegnarono direttamente ma finsero di mandarlo nel villaggio della nonna, la quale lo mandò a caccia di uccelli con un amico.
Mentre era intento alla caccia sopraggiunse un tipo molto forte che lo catturò, si chiamava Neoala ed era stato mandato dai genitori. Costui, impassibile alle grida del bambino, lo consegnò ai banditi.
Quando furono giunti, Kalamba vide gente del suo villaggio mandata dai genitori: erano venuti per prendere suo fratello e dare lui in cambio.
I due fratelli caddero in lacrime, il fratello maggiore era addolorato nel vedere Kalamba consegnato così ai ladri. Terminato lo scambio i due fratelli si diedero l’addio stringendosi la mano.
Dopo 15 giorni Kalamba fu venduto a un re, il quale lo diede come schiavo a sua moglie.
Costei lo trattò come un figlio. Kalamba allora poteva avere 7-8 anni.
Dopo quattro mesi una banda di mercanti di schiavi venne per assaltare il villaggio, ma il re cercò un compromesso e diede loro Kalamba come regalo (i mercanti erano stati mandati dai portoghesi) e così andarono altrove dove catturarono persone che tennero ai ceppi.
Kalamba, nel frattempo, era stato incaricato di attingere acqua e di preparare da mangiare.
Kalamba racconta che questi mercanti di schiavi facevano cose orribili.
Una volta attaccarono un villaggio della tribù Asiko, ma ne furono respinti.
Allora cercarono altra gente e tornarono, bruciarono tutto ed uccisero tutti gli adulti eccetto i giovani. (qui il testo racconta scene di crudeltà raccapriccianti che salto!).
Finito l’assalto partimmo da lì con marce forzate senza mai fermarci se non quando fummo molto lontani.
Allora ci fermarono e ci chiesero «chi non vuole continuare?»
Molti non ce la facevano più. Li riunirono in gruppi di quattro o cinque e li uccisero a colpi di lancia; poi chiesero di nuovo «C’è ancora qualcuno che non se la sente?».
Dopo otto giorni giungemmo al loro villaggio.
Essi raccontarono al loro re del loro viaggio. Il loro re si chiamava Moloko.
«Abbiamo catturato questo ragazzo, te lo regaliamo», dissero indicando Kalamba.
«Molto bene – rispose – voglio sgozzarlo ed intingere con il suo sangue i miei amuleti che mi renderanno invincibile. Il suo corpo lo darò poi ai miei cani che a loro volta, una volta sazi, saranno ancora più feroci.»
« Questo poi no! Una preda cosi preziosa… non possiamo dartelo» dissero i mercanti.
« Se è cosi, tenetelo pure!» rispose il re.
Kalamba venne così portato fino a Sangotsy dove venne venduto a mercanti arabi che trafficavano col Madagascar.
Questi stiparono la nave di moltissimi schiavi uomini, donne e bambini.

Indescrivibile la durezza del viaggio, senza cibo e senza acqua.
Moltissimi si suicidarono buttandosi in mare ed annegando.
Qualcuno diceva anche che i malgasci compravano a caro prezzo gli schiavi più robusti per mangiarseli.
Gli arabi non capivano quanto veniva detto poiché conoscevano a stento solo qualche parola di malgascio.

Dopo cinque giorni di viaggio giunsero a Maintirano, grande mercato di schiavi.
Da molto tempo questo posto era conosciuto come la fossa degli schiavi.
Un arabo chiamato Ranapaka comprò Kalamba e gli cambiò il nome chiamandolo Mahihitse (che in malgascio vuol dire assennato).

Kalamba visse con lui otto anni di sofferenze poiché Ranapaka era un uomo feroce.
Quando proprio non ne poté più, Mahihitse fuggì con un compagno chiamato Obeda.
Presero la strada verso sud e dopo tre giorni giunsero al fiume Tsiribihina dal re Toera che li accolse.
Tuttavia, dopo un mese, li vendette ad un arabo Bakary il quale si presentò loro avvisandoli che li aveva acquistati e che era lì per portarli via.
Tuttavia chiese loro se si trovassero bene con lui; gli risposero che se proprio dovevano essere venduti preferivano non finire ancora nelle mani di un arabo.
Sentito questo lui li portò alla spiaggia per raccogliere mercanzie varie. Poco dopo si accorsero di esser già stati nuovamente venduti: venduti stavolta ad un bianco L:L:, un famoso mercante di schiavi della regione.
Costui decise di spedirli, con un altro schiavo, al sud a Manombo su un boutry (una imbarcazione in uso da queste parti!) e poi da Manonmbo in un altro luogo.
Così li fece mettere in catene e li spedii.
Il viaggio fu caratterizzato dal vento e il timoniere malato da tre giorni.
Così una notte Kalamba riuscì con destrezza a liberarsi dalle catene, che gettò in acqua, per poi tuffarsi anche lui con altri due compagni. Ma la terraferma era assai lontana e la corrente del Tsiribihina, presso Tsimanandrafuzana, era profonda e molto forte.
Completamente sfiniti arrivarono a terra, dove si accorsero che il loro compagno era stato portato via dall’acqua anche perché non si era completamente liberato dalle catene.
Al mattino faceva molto caldo ed erano affamati, che fare?
Decisero di ritornare Ambiky.
Là si presentarono al guardiano delle tombe dei re e questi li riportò al re Toera che informò subito il mercante bianco del loro ritorno.
Appena seppero che il padrone sarebbe tornato a riprenderli, fuggirono di nuovo.
Al bianco furibondo, il re promise che li avrebbe fatti catturare nuovamente.
E così fu: vennero ritrovati, messi in catene e mandati a Morondava.

Mahihitse venne fatto conduttore di battello con un altro schiavo.
Guidando il battello verso il nord, giunti nei pressi di Maintirano, Mahihitse fece naufragio.
I sakalava della costa accorsero verso il battello e saccheggiarono tutta la merce, compreso i vestiti che aveva indosso, e arrivò cosi nudo a Maintirano.
Là ebbe notizia che il mercante bianco che era il suo padrone era morto.
Il figlio del bianco però fece catturare Mahihitse per riportarlo a Morondava; Mahihiste ebbe a soffrire molto a causa sua.
Un giorno di calore intenso, Mahihiste andò a lavarsi, dopodiché tornò a casa, e quando suonò la campana si diresse al lavoro, portando con sé un coltello che spesso aveva tra le mani, per gli usi comuni.
Ma un compagno pieno di invidia gli fece la spia e lo denunciò al padrone mettendolo in guardia: «Mahihiste sta arrivando, ha un coltello perché vuole ucciderti».
Il padrone gli credette, e senza bene accertarsi dell’accusa inviò alcune persone per catturarlo e legarlo.
Le corde sono talmente strette che Mahihitse urla e piange dal dolore.
Legato cosi mani e piedi venne portato dal governatore a Androvabe (un quartiere di Morondava).
Lì un ufficiale lo schernisce : «Su dai non piangere, vedrai cosa ti fa il governatore!».
E stringe ancora di più le corde cha fanno sanguinare Mahihitse.

Ebbe luogo l’inchiesta.
Rainitsianoro (il nome del governatore) stabilì: «Ti spariamo otto colpi di fucile, da vicino, e se nessuna pallottola ti ferisce sei libero, ma se una ti scalfisce, allora sei colpevole».
Il governatore era un ubriacone e un superstizioso.
Mahihitse ribattè : «Che ci posso fare? Del resto non ho nessuno che mi protegge, né padre, né madre. Anche se vengo ucciso per cose che non ho fatto, non me ne importa niente!»
Venne deciso di aspettare l’arrivo del padrone per eseguire la procedura.
L’indomani il padrone arrivò e disse al governatore : «L’ho consegnato all’autorità, fatene quel che volete. Ma se voi liberate uno schiavo che ha cercato di uccidere il padrone allora mi sentirete.»
Il governatore decise così di uccidere Mahihitse, l’esecuzione avrebbe avuto luogo l’indomani.
Mahihitse, fuggì, cercò di scavalcare la fitta siepe di cactus che faceva da cinta alla cittadina, ma non ce la fece e con il corpo pieno di spine continuò a correre fino a che arrivò presso un certo Pietro, che viveva vicino all’attuale Betela.
Costui lo tenne nascosto nei campi di canna da zucchero.
Mahihitse andò poi ad Ambato dal suo amico Obeda che lo condusse presso il suo padrone.
Costui vedendo Mahihitse esclamò : «Ah! Gli Ambaniandro (si riferisce al governatore che era di origine Merina e proveniva da Tananarive!) non ti hanno ucciso, neppure io ti ucciderò.
Su Obeda dagli un lavoro».
Nel 1877 arrivò il decreto della regina : «Tutti gli schiavi del Mozambico siano liberati!»
Kalamba Mahihitse diventa così libero; ma le cicatrici sono ben visibili laddove era stato legato con le corde.
E’ in questo periodo che cominciarono a lavorare qui a Morondava i missionari Rostvig e Jacobsen.
Mahihitse racconta che era a fianco di Rostvig e c’era un malgascio che leggeva la Bibbia.
Rostvig gli chiede : «Capisci ciò che viene letto ?»
Mahihitse gli risponde : «Come posso capire se nessuno me lo insegna ?»
Rostvig gli dice : «Allora vieni da noi!»
Ogni volta che la bandiera norvegese si alzava (perché allora la chiesa non aveva ancora la campana) Mahihitse arrivava. Non ha mai saltato una domenica. Si sedeva sempre vicino alla porta della chiesa. Jacobsen predicava, ma lui non capiva niente.
Una notte fece un sogno e vide una nave magnifica. Una folla enorme si pressava per vedere la nave che aveva una vela bianca spendente. Era il battello di Gesù. Mahihitse fece ogni sforzo per raggiungere a nuoto la nave, e poi si svegliò.
Al mattino dopo aver meditato su quel sogno andò in riva al mare, e lì vide una bandiera norvegese che sventolava. Una nave della società della missione era arrivata. Dal 1880 non l’ho mai visto mancare la preghiera, ci viene tutte le domeniche. E così, ogni volta che la bandiera si alzava, lui arrivava.
Il 1 giugno 1879, giorno della pentecoste, riceve il battesimo e il suo nome diventa adesso Giuseppe. A quel momento aveva già frequentato il catechismo da due anni. Giuseppe progredisce nella conoscenza, e nella coscienza del peccato: una delle condizioni per essere ammesso al battesimo.
Sa meglio di chiunque confessare i suoi peccati.
In chiesa si può incontrare un makoa con gli abiti puliti, è un piacere vederlo con sua moglie Rebecca e i loro otto figli.
E’ Giuseppe, un povero schiavo che aveva sofferto tanto.
Era lui, agli inizi che dirigeva la preghiera in chiesa, insegnava anche a scuola e con grande fede spiegava il catechismo ai bambini. La pace regna nella sua famiglia.
Se si passa davanti a casa sua si può vedere gente che prega. Un uomo grande, nero, con vestiti puliti e gli occhi alzati al cielo. Se c’è chi chiede chi ha condotto un uomo macerato dal dolore a diventare un uomo di pace, la risposta è: l’opera di Cristo.
Giuseppe morì il 5 gennaio 1903, nella pace del Signore, e fu sepolto il 6 gennaio

n.d.r.: Questa biografia di Kalamba è stata pubblicata da Klara Boyer-Rossol (che sta preparando un dottorato di ricerca – Storia dell’Africa- sulla presenza dei Makoa sulla costa Ovest del Madagascar).
Nel corso delle sue ricerche ha scoperto la storia di Kalamba, messa per scritto dal pastore norvegese Aaas, ( questa biografia fa parte delle testimonianze “missionarie norvegesi”).
Nel corso della sua presenza a Stavanger il pastore S. Ramàka ne fece una sintesi , dall’originale norvegese, e la pubblicò nel 1944 sulla rivista malgascia MPAMANGY , nov-dic, p.88-92 :”Kalamba Mahihitse Josefa” ( tit. originale: Oplevelser og indtryk…, Stavanger, 1919, p. 166-181, del pastore L.Aas ).
Da notare che Kalamba divenne uno dei primi “ evangelizzatori” makoa di Morondava